“L’Afghanistan ormai è un ring di boxe”

Il 31 agosto 2021 è storia. Di quelle che i manuali scolastici non potranno fare a mano di citare. E per le implicazioni geopolitiche, e per la devastazione che si è lasciato alle spalle. Abituati, soprattutto gli italiani, a farci i conti – con l’ottavo mese dell’anno – solo come fine delle proprie vacanze, dall’altra parte del mondo un intero Paese veniva abbandonato al proprio destino dall’Occidente. È l’Afghanistan che torna in mano talebana. È una nazione che sbatte le porte in faccia ai diritti delle donne per tornare in un limbo fatto di povertà e terrore. I giornali ne scrivono, i tg mostrano le immagini. Ma i colori vivi possono restituirli solo le voci di chi in quei luoghi ci è nato e cresciuto. Come Nehal Shuja, 23enne nato nel sud-ovest e cresciuto nella capitale Kabul che, nel 2015, dopo aver raggiunto la maturità, ha avuto l’opportunità di studiare in Italia, presso l’Accademia militare di Modena, grazie ad una borsa di studio. Da allora, la penisola è casa sua. Napoli la città in cui attualmente vive. Studia e frequenta il secondo anno di Scienze Politiche, presso la Federico II. Studente meritevole, è uno dei 6 federiciani ad aver ricevuto una sovvenzione dalla Fondazione Erri De Luca. La presa al potere dei talìban, per sua fortuna, non l’ha vissuta fisicamente, ma la sofferenza è pari a quella dei suoi connazionali; a quella della sua famiglia, che tutt’ora vive lì. E infatti Nehal non si tira indietro, sale sul ring come piace fare a lui – è stato campione nazionale di lotta libera – e si apre su passato, presente e futuro. Ma, come in tutte le storie, bisogna partire dall’origine. “Quando sono arrivato qui, è stata veramente dura – racconta ad Ateneapoli – perché vengo da un Paese che è un altro mondo rispetto all’Italia, da ogni punto di vista. Però devo dire che il popolo italiano mi ha accolto veramente bene, ad ogni livello. Ne vado fiero e ne sono contento. Piano piano, imparando la lingua e comprendendo la cultura, mi sono integrato benissimo. Oltre allo sport, spero di potermi proiettare in una carriera diplomatica. È un ambito che mi piace fin da quando ero bambino. So cosa significa vivere situazioni difficili e collaborare affinché si possa dare aiuta per me è importantissimo”. Sulla vita in Afghanistan non ha dubbi: “Quando ero lì, nonostante tutti i problemi, le esplosioni, gli attentati, la fame, ero con la mia famiglia, e mi manca molto. È vero, venendo qui ho fatto un passo in avanti enorme, ma sto soffrendo tantissimo. Non mi sento bene quando vedo la situazione che vive ora la mia gente. Com’è possibile che un esercito di 300mila soldati (dell’ex governo Ghani sostenuto dall’Occidente, ndr) si sia sciolto in poche ore?”. Una domanda che resta, al momento, inevasa. Ma gli americani hanno una colpa importante: “Sono stati investiti 100 miliardi nel mio Paese, ma non si sa che fine abbiano fatto. Questo perché non c’è stata una lotta alla corruzione interna, che ci divora da sempre”. Ciò non toglie la possibilità di raccontare gli spaccati di vita di chi a Kabul ci è rimasto, come la madre, i fratelli e le sorelle di Nehal. “I problemi ci sono sempre stati nel nostro Paese, già dai grandi imperatori. Tuttavia, avevamo un governo stabile (ancora Ghani, ndr) seppur sostenuto dall’esterno. C’erano diritti umani per donne e bambini. C’era il diritto di parlare, protestare, ora non si può fare più nulla. L’economia è collassata. Basti pensare che chi ha uno stipendio può prelevare solo 200 dollari al mese, e magari ha dieci persone in famiglia da sfamare. Come si può andare avanti?”. E in particolare, sulla famiglia di Nehal, pende una scure terrificante. “Alcuni miei parenti lavoravano con l’ex governo. I talebani appena sono saliti al potere hanno fatto credere di perdonare i collaborazionisti, purtroppo non è vero. Ora non possono uccidere perché sono sotto l’occhio vigile della comunità internazionale. Ma di nascosto hanno già fatto fuori un sacco di comandanti dell’esercito. Ora c’è la forte paura di essere uccisi. Non escono molto di casa, soprattutto le donne”. E a ben vedere, i pericoli non vengono solo dai talebani, ma anche dal ritorno in auge di Daesh, ovvero l’Isis, nella sua costola afghana ‘K’. “Questi accusano i talìban di essere infedeli, che a loro volta accusano pure noi di esserlo. Daesh ha già compiuto due – tre attentati bruttissimi in alcune moschee del Paese, provocando morti tra donne e bambini”. Il giovane si congeda con una speranza. Anzi un appello, misto ad una propria previsione: “Vorrei che la comunità internazionale intervenisse e ci aiutasse, perché i talebani non sono capaci di governare e infatti non dureranno a lungo”. L’ultima frase è lapidaria: “L’Afghanistan ormai è un ring di boxe”.
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