Un Maestro va in pensione

Classe 1936, origini lucane, geotecnico con all’attivo quasi duecento pubblicazioni, professore ordinario di Fondazioni, lunedì 12 maggio (ore 10.30 Aula Magna Leopoldo Massimilla) terrà la sua ultima lezione. Carlo Viggiani può a buon diritto essere considerato un Maestro. 
Jeans, giubbotto, vitale – ogni tanto la mattina va ancora a correre “perché mi dà un’iniezione di fiducia” -. Parla della guerra, degli studi dai preti, della famiglia molto osservante in cui è cresciuto – “però mia madre credeva che i comunisti fossero illuminati dalla grazia di Dio” -, della moglie – “una persona singolare, cha ha influito in tutto quello che ho fatto. Senza di lei avrei avuto una vita molto diversa” – e dei tre figli – i primi due docenti di Ingegneria a Grenoble e Roma, la terza avvocato a Forlì, “come tradizione di famiglia, i figli che hanno scelto la strada del padre hanno studiato fuori”. Nei suoi ricordi ci sono le lezioni di Analisi di Caccioppoli (“era magrissimo, muoveva la mani lunghissime, da pianista. In realtà è stato un rapporto molto impersonale, ma mi ha dato due 24 e ancora mi cuoce”) e la camera ammobiliata in via Mezzocannone che i geotecnici usavano come studio. 
Con gli studenti: 
“un rapporto tenero”
“Ho trascorso tutta la mia vita all’università e ne sono felice, ma ho sempre voluto essere un professore a tempo definito perché un ingegnere deve anche fare le cose in prima persona, altrimenti non può insegnare”. L’aspetto più bello di questi cinquant’anni è stato il contatto con gli studenti. “Un rapporto a volte tenero e cordiale, altre fastidioso. Incontrare dei propri allievi in giro per il mondo, a distanza di anni, è sempre una cosa tenerissima. Credo che questo ci fa restare più vivi dei colleghi che entrano nell’industria. Un privilegio che paghiamo con uno stipendio che definirei comico”. 
Tra i molti progetti a cui ha preso parte (previsione di impatto del Ponte sullo Stretto, il Porto di Napoli), il più significativo è la Torre di Pisa, alla quale ha iniziato a interessarsi nel ’63, quando era laureato da pochi anni. Da allora non ha più smesso. “Faccio ancora parte di un Comitato di controllo. Ho cominciato da portaborse ed ora sono il più vecchio. È certamente la più grande avventura della mia vita. È molto divertente lavorare con restauratori e storici dell’arte e fin dall’inizio l’ho sentita come una sfida”. “La Torre aveva cominciato ad incrinarsi quando era a metà e con un coraggio leonino gli ingegneri dell’epoca sono andati avanti. Ci sono anche dei documenti che mostrano il lavoro con i fili a piombo. Noi siamo tanto fieri dei nostri apparati, ma saremmo stati capaci di fare altrettanto per non comprometterla?”. 
La scelta degli studi da ragazzo è stata in parte dettata dalla cultura del tempo. “Ho scelto Ingegneria per una motivazione banale. Mi vergogno un po’ a dire che sono sempre stato una specie di primo della classe. Ai miei tempi, i ragazzi bravi andavano ad Ingegneria e l’unica che allora esisteva era quella Civile. Però non avevo esperienza, mi sono laureato in quasi otto anni, ma mi sono così tanto innamorato, che ho scelto di restare. Ho trasmesso questa passione anche ai miei figli”. 
Il ’68, l’altra esperienza entusiasmante della sua vita. “Quando è arrivato ero già assistente e relativamente ‘anziano’. Come tutte le passioni senili, è stata molto intensa e cerco di mantenerne lo stile ancora oggi” dice mostrando le foto alle pareti del suo studio di Ernesto Che Guevara, di Tommie Smith e John Carlos con i pugni in alto sul podio delle Olimpiadi di Città del Messico del ’72, mescolate a quelle della famiglia, della Torre e del suo Maestro Arrigo Croce, “l’uomo che ha portato la Geotecnica in Italia. Mi emozionai tantissimo alla conferenza in sua memoria”. Fino a pochissimi mesi fa, quello di Napoli era l’unico Dipartimento di Geotecnica in Italia. Quella del geotecnico è una vita interessante, un po’ più complicata di quella degli altri ingegneri. “La diagnosi è la parte più difficile, perché non possiamo affidarci a degli schemi. Dobbiamo capire il sottosuolo e tenerci quello che ci dà la natura. Indagare basandoci sempre su piccoli campioni. Su 10mila metri cubi, ne riusciamo ad indagare al massimo uno. La scarsità di informazioni delle quali disponiamo è terrificante”. Molti i lavori e i periodi di studio all’estero, in Europa, Russia, Egitto, Arabia. “Un viaggio di formazione per me straordinario è stato un soggiorno di un mese e mezzo in Cina, negli anni ’80, quando era ancora misteriosa. Poi, come tutti gli ingegneri, sono stato tre o quattro volte negli Stati Uniti, una volta anche al MIT, un paese che non amo, ma che è comunque straordinario, in cui si imparano molte cose”. Non ha, però, mai pensato di lasciare l’Italia. “C’è stato un momento, alcuni anni dopo la laurea, in cui ho pensato agli Stati Uniti, ma poi ho capito che non me ne sarei andato. Sono un napoletano convenzionale. Vivo a Posillipo, nella casa in cui sono cresciuto. Ho sempre sofferto perché i figli sono lontani, ma perché dovrebbero tornare?”. Coltiva ancora gli insegnamenti del suo Maestro. “Aveva una visione equilibrata di tutto. Non era un teorico, ma durante la guerra, mentre era prigioniero in Africa, Gerardo Ippolito altro Maestro della Facoltà, gli mandò un libro di Meccanica Razionale. Diceva sempre che studiare durante la prigionia, l’aveva segnato molto, perché gli aveva insegnato che non c’è niente di più pratico di una buona teoria”. 
Un sogno
professionale
Nonostante le molte soddisfazioni accademiche, resta ancora un sogno professionale. “Avevo sempre invidiato alle università straniere il dottorato di ricerca. Quando è stato istituito anche da noi, l’ho considerato un passo avanti. Per vent’anni abbiamo avuto un dottorato in consorzio con Roma La Sapienza, che ha formato persone bravissime. Poi i consorzi sono stati sciolti e questa cosa mi ha fatto sempre soffrire. Dopo dieci anni ho provato ad attivare un dottorato in Geotecnica con le cinque Facoltà di Ingegneria campane, nato da soli tre anni. Ci terrei che si consolidasse, perché creare il Politecnico campano del quale si parla tanto, significa le competenze in rete”. 
Delle tantissime pubblicazioni all’attivo, quelle di cui va più fiero sono i due articoli tradotti in giapponese e la sua lezione magistrale sull’ipoplasticità svolta in Grecia una quindicina di anni fa, pubblicata sulla rivista Marxista greca Utopia. Adesso è impegnato a scrivere un libro sulle fondazioni – “una cosa faticosissima ma divertente. Spero sia utile agli studenti” -. Nella sua carriera anche errori. “Pochi anni dopo la laurea, mi sono occupato della realizzazione di un palazzo a Lagonegro, in una zona franosissima. Pochi anni dopo un’ala dell’edificio cominciò a cedere. L’edificio poi fu abbattuto, ma non ho mai capito cosa fosse accaduto”. Alla fine il bilancio è comunque positivo. “In fondo ho avuto una vita felice, con qualche dolore, come tutti. Però intorno mi sembra tutto volgare, tutto scadente, a cominciare dalla scuola, perché i ragazzi sono bravi e svegli per il solo fatto di essere giovani. Forse questo è l’atteggiamento dei vecchi”. 
Simona Pasquale
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