Comunità e bellezza: la diversità della Olivetti

Imprenditore e intellettuale, urbanista, politico e scrittore, da alcuni considerato piuttosto un visionario. Un sogno industriale il suo, divenuto realtà, in cui la fabbrica non è concepita solo come luogo di lavoro chiuso e individualista, ma è costruita a misura di lavoratore. È Adriano Olivetti, l’imprenditore illuminato convinto che la bellezza e la cultura dovessero elevare l’uomo, la cui storia è stata al centro di “I grandi capitani d’impresa: Adriano Olivetti”, incontro del ciclo di seminari organizzato nell’ambito del corso di Economia e Gestione delle Imprese del prof. Mauro Sciarelli. Martedì 9 marzo, circa 200 studenti si sono connessi alla piattaforma Teams per incontrare l’ing. Bruno Esposito, consulente aziendale ed ex manager Olivetti, che ha raccontato la sua esperienza professionale alla Olivetti, cominciata vent’anni dopo la morte del fondatore. Alla sua voce si è intervallata la proiezione del documentario “Adriano Olivetti – L’imprenditore rosso” di Mariella Crocellà e Paolo Festucci, parte di una serie scritta per il programma Rai “La Storia Siamo Noi”. Scorrono le prime immagini del documentario e le prime testimonianze di professionisti che hanno lavorato nella sua squadra e di intellettuali e politici che lo hanno conosciuto. La storia di Olivetti è nota. Dopo la laurea in Ingegneria Chimica al Politecnico di Torino nel 1925, e un viaggio negli Stati Uniti, inizia a lavorare come operaio nella fabbrica di prodotti per ufficio fondata ad Ivrea, cittadina piccola e poco conosciuta del Canavese, dal padre Camillo, un fervente socialista. Ne assume la direzione nel 1932, ponendosi l’obiettivo di modernizzarla nell’ottica di una più sensibile gestione dei dipendenti. Amante di storia, filosofia e letteratura, sensibile alle avanguardie artistiche, negli anni del regime viene bollato come sovversivo, successivamente arrestato da Badoglio, ripara poi in Svizzera. Al termine della guerra rientra ad Ivrea, nella sua fabbrica, cenacolo di nomi illustri e in cui gli operai condividevano gli stessi spazi dei dirigenti e potevano frequentare corsi, mostre cinematografiche, concerti e la biblioteca che era accessibile addirittura anche durante l’orario di lavoro. Alla prima interruzione del documentario prende la parola l’ing. Esposito che subito si definisce ‘olivettiano’: “Una delle prime parole chiave che avete ascoltato è comunità – dice – Chi ha vissuto per anni nell’organizzazione olivettiana si porta dietro un bagaglio non solo tecnico, ma di valori e comportamenti”. Altra parola chiave su cui si sofferma è ‘bellezza’. Con Olivetti si può dire che si rovesci il concetto di fabbrica: “Le sue non erano fabbriche chiuse. Chi ha visto, ad esempio, gli stabilimenti di Ivrea sa che non c’erano cancelli, non c’era separazione con la strada. Le sue strutture in ferro e vetro volevano far entrare la luce in modo che il dipendente non si sentisse isolato in un mondo chiuso”. Relazione con il territorio “significava anche questo, da dentro guardare fuori e viceversa”.
Servizi sanitari, biblioteca e mensa
Nel 1980, l’ing. Esposito entrò nello stabilimento di Pozzuoli, nato nei primi anni Cinquanta per impiegare al Sud la manodopera che lì vi risiedeva: “Era bello, sembrava quasi di essere in un centro di bellezza, in un punto panoramico da cui si vedeva il golfo. Fui accompagnato in un giro della struttura. Conobbi i servizi sanitari più evoluti dell’epoca, la biblioteca e la mensa in cui mi trovai seduto accanto ad Elserino Piol, uno dei manager più importanti”. Ed ecco quell’organizzazione del lavoro, tipica della Olivetti, “in cui si sposavano efficienza operativa e soddisfazione dell’individuo affinché quell’organizzazione fosse finalizzata alla sua crescita”. Poi prosegue: “Nel documentario avete sentito parlare dell’organizzazione delle isole di produzione, una struttura in cui c’erano una molteplicità di ruoli di interscambio tra le persone finalizzate all’obiettivo produttivo. I lavoratori dovevano crescere nel contributo e nella conoscenza del prodotto per arricchire la loro capacità operativa e soddisfazione nel risultato”. Il tutto sposato “con la luminosità degli ambienti e l’interrelazione umana, vi fa capire il perché dei fenomeni di efficienza produttiva e di produttività che interessavano la Olivetti”. 
Sabato libero, assistenza sanitaria, assistenza alle madri lavoratrici, asili in cui figli di dirigenti e di lavoratori sono insieme: è un modo di gestire l’azienda molto lontano da quello degli imprenditori tradizionali. Una crisi di sovrapproduzione che si verifica viene affrontata facendo crescere la struttura commerciale, il numero di filiali e formando i venditori. Molto note sono anche le originali modalità di selezione del personale. Modalità adottate ancora a vent’anni dalla morte del fondatore, come ricorda l’ing. Esposito: “Nel 1980 ero un laureato in Ingegneria Elettronica e ricercatore al Cnr. Fui convocato per un colloquio a piazza Bovio e mi fu chiesto di parlare di me, dei miei interessi, di cosa leggevo. Poi il selezionatore mi salutò e io, da buon tecnico, pensai che la cosa fosse finita lì”. A questo incontro ne seguì, invece, uno ad Ivrea, tutto spesato, con il dirigente del settore “in cui avrei dovuto essere collocato. Mi aspettavo un colloquio tecnico, invece mi fu chiesto di parlare di quelle che oggi definiamo soft skills”. Poi, l’assunzione ad Ivrea e un immediato trasferimento a Pozzuoli: “Avevo ricevuto anche un’altra offerta ad Aversa che ero intenzionato ad accettare. Quando ad Ivrea dissi che sarei andato via dalla Olivetti poiché volevo tornare a casa, in dieci minuti fecero una telefonata a Pozzuoli e mi fissarono un colloquio. Lo stesso giorno in cui avrei dovuto iniziare ad Aversa, fui assunto a Pozzuoli”. Altro ricordo che l’ing. Esposito condivide è quello degli olivettiani all’aeroporto. Cita le squadre di altre importanti aziende, i cui dirigenti emanavano un’aria di autorevolezza, mentre “nel nostro gruppo, era difficile capire se ci fosse un capo e chi fosse. Mi porto dietro un immenso bagaglio di formazione ed esperienze di vita”. 
Protagonista anche di un momento significativo della vita politica italiana, Olivetti sognava un mondo del lavoro libero dallo strapotere del denaro, della finanza e di uno Stato lontano dai lavoratori. Nella seconda metà degli anni Cinquanta diventa sindaco di Ivrea e si candida alle elezioni politiche ottenendo due seggi in Parlamento. Ha rapporti freddi con i sindacati, che si sentono sminuiti, dato il suo contatto diretto con i lavoratori, e conflittuali con Confindustria che invita gli associati a boicottare i suoi prodotti ritenendolo pericoloso per il modello di impresa che propone. Nei primi anni ’90, ricorda ancora l’ing. Esposito, “ci trovammo a dover ridurre il personale per una crisi aziendale. Nella legislazione italiana, esisteva una modalità contrattuale mai adottata, il contratto di solidarietà, che permetteva una rotazione delle persone senza l’abbandono del rapporto con l’azienda che, invece, è la caratteristica della cassa integrazione. In quella direzione spinse ancora una volta l’attenzione alle persone che aveva origine nel pensiero del fondatore”. Dagli anni Cinquanta, la Olivetti si apre verso l’elettronica. Il laboratorio elettronico di Pisa, ad esempio, introduce sul mercato l’Elea, il primo calcolatore elettronico italiano. Questa esperienza, però, non trova terreno fertile. “Ci ha riprovato nuovamente nell’83-84 quando fu il terzo player mondiale nella produzione di computer. Anche questa vicenda, che io ho seguito profondamente, non trovò il giusto supporto. Mentre vendevamo all’estero, in Italia si comprava Ibm. Non si apprezzava la diversità della Olivetti, non si coglieva quanto questa fosse una grande ricchezza che permetteva di essere attenti allo sviluppo, all’innovazione e al progresso”. Adriano Olivetti muore nel febbraio del 1960, durante un viaggio in treno. Chiude, nell’ultimo segmento del documentario, uno stralcio di un’intervista alla figlia Laura. Le viene chiesto se ricordi suo padre come una persona felice e lei risponde di no, di ricordarlo come una persona che aveva istanti di felicità e tenerezza, ma che cercava qualcosa di più che non c’era. 
 
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