Gli studenti universitari e la “tecno-socialità”

Il 2020 verrà ricordato per tutto quello che non è stato possibile fare, piuttosto che per gli obiettivi raggiunti, come generalmente si tende a valutare l’andamento di un anno. È stato evidente, anche solo dopo pochi mesi, come chiunque abbia risentito della situazione assolutamente eccezionale: chi viveva a casa con la famiglia e chi invece ne era distante; chi ha continuato a lavorare e chi ha dovuto interrompere; chi ha avuto meno entrate del solito e chi non ne ha avuta nessuna. Ad interrogarsi sull’impatto che molteplici fattori di stress possano aver avuto sul benessere psicofisico degli studenti universitari durante il lockdown sono state la prof.ssa Maria Clelia Zurlo e le  dott.sse Maria Francesca Cattaneo Della Volta e Federica Vallone, due dottorande presso il PhD in Mind, Gender and Language del Dipartimento di Studi Umanistici federiciano. La presentazione dello studio, pubblicato sul sito Frontiers in Psychology, accessibile a chiunque fosse interessato, si è svolta lo scorso 18 gennaio all’interno del ciclo di seminari online “La ricerca ai tempi del COVID-19”. 
“Stress e tecnostress: la valutazione dell’impatto del periodo di emergenza COVID-19 sulle condizioni di salute psicologica degli studenti universitari”, è il titolo che vuole già chiarire tutte le direttive su cui si è mossa la ricerca. Obiettivo dello studio è stata l’elaborazione di un test, il COVID-19 Student Stress Questionnaire (CSSQ), i cui risultati possono servire da linee guida per istituzioni di ogni grado, da quelle nazionali a quelle accademiche, per individuare i principali fattori di malessere psicologico per gli studenti e intervenire per risolverli e aiutare i ragazzi concretamente. Questo perché Zurlo, Cattaneo Della Volta e Vallone, nella riflessione che ha poi dato avvio alla ricerca, hanno individuato come potenziali fattori di stress non soltanto elementi più evidenti, come la paura del contagio o l’aumento di prolungati stati d’ansia, ma anche fattori legati alle stesse misure di contenimento per il virus. Trattandosi di una pandemia e di un virus con un grado di trasmissibilità particolarmente alto, il primo intento da parte dei governi è stato quello di chiudere gran parte delle realtà in cui un grande numero di persone veniva a contatto tra loro, le università per prime, e applicare per un tempo prolungato l’ormai familiare lockdown. La forzata chiusura a casa, salvo situazioni di particolare emergenza, più di tutto ha avuto una pesante ricaduta sulla quotidianità dei giovani, studenti e non. 
Sono state individuate tre sotto-scale cui fare riferimento per raccogliere i dati: 1) relazioni e vita accademica; 2) isolamento; 3) paura del contagio. Nel primo punto rientrano le relazioni interpersonali di ogni genere, da quelle con il proprio partner a quelle con gli amici, i colleghi universitari o i professori. La vita accademica è in pausa da ormai un anno e non dà segni di ripresa. Come espone la prof.ssa Zurlo durante il suo intervento, “gli studenti hanno dovuto reinventare una propria routine, privata degli incontri con colleghi e amici con cui studiare. Il percorso accademico stesso per molti ragazzi ha mostrato rallentamenti e lunghe pause, causate spesso da sintomi come diminuzione della concentrazione e del grado di attenzione, e mancanza di motivazione”. Tutti questi sono stati fattori importanti da considerare nell’analisi condotta dallo studio delle dottoresse, per identificare meglio i malesseri psicologici cui gli studenti hanno dovuto far fronte, come ad esempio un crescente livello di stress, depressione, ansia e attacchi di panico. Sintomi riscontrabili non soltanto tra i giovani, ma dall’intera società in risposta alla frustrazione per risorse insufficienti (emblema ne sono stati gli scaffali vuoti dei supermercati), ma anche rispetto al senso di confusione, risultato di una inadeguata qualità di informazione da parte delle istituzioni sanitarie locali, al senso di isolamento e alla noia dovute alla riduzione dei contatti sociali. Ad essere tenute in conto, quindi, non sono solo le paure o le ansie legate al virus e alla sua trasmissione, alla possibilità di venire contagiati, ma anche le profonde modifiche alla propria vita ordinaria. “Da una parte – spiega la prof.ssa Zurlo – sono state sospese le relazioni tra amici, partners, colleghi, ma dall’altra sono state intensificate le relazioni familiari, complici i ritorni in massa di un altissimo numero di studenti, fuorisede o di chi usufruisce normalmente degli alloggi studenteschi, nelle proprie case, comportando situazioni di frustrazione e conflitti per rapporti complicati in famiglia, con i genitori, o anche soltanto a causa di spazi ristretti che si è forzati a condividere”.
L’intervento della dott.ssa Vallone ha poi posto l’attenzione anche sull’altra protagonista di questo studio, la tecnologia, che in questo lungo anno è diventata la principale alleata e acerrima nemica degli studenti. Dice la dott.ssa Vallone: “è stato l’effetto di una traduzione di qualsiasi tipo di impegno in uno spazio virtuale, che ha sostituito quasi completamente i rapporti in presenza. Un utilizzo della tecnologia così totalizzante è un’assoluta novità, che ha portato alla luce molti aspetti positivi, ma anche molti altri su cui riflettere per un prosieguo delle attività quotidiane in questa modalità senza stress e ansie”. Si parla oggi di un sovraccarico tecnologico per i giovani, che si trovano a lavorare, studiare di fronte ad un computer, ma anche a trascorrere il proprio tempo libero utilizzando quegli stessi strumenti. “La tecno-socialità – come è stata definita dalla dott.ssa Vallone – è stata vista come un’incredibile risorsa, che ha dato, tra tutto, la possibilità di continuare con il percorso accademico nonostante la distanza. Eppure da molti è stata anche percepita come un’invasione della propria privacy, un’occupazione forzata di spazi che fino a quel momento restavano separati da sfere quotidiane come, appunto, il lavoro o l’università”. Rilevante per i risultati ottenuti dal test è l’associazione tra il vissuto e i fattori di stress connessi al COVID-19, e le dimensioni dell’utilizzo delle tecnologie in termini di facilità d’uso: più una persona era abituata ad un frequente utilizzo delle tecnologie in un periodo antecedente alla pandemia, meno l’aumento d’uso della tecnologia è stato vissuto come un disagio, anche per una maggiore semplicità di utilizzo degli strumenti stessi. A prescindere, però, da quanto se ne facesse uso nella propria routine, per molti i limiti della tecnologia restano, soprattutto per quanto riguarda le relazioni sociali. 
Lo strumento di misurazione (il questionario) dell’impatto psicologico dell’emergenza COVID-19 elaborato dal gruppo di lavoro mira quindi ad un target di riferimento ben specifico, a differenza di numerosi altri strumenti pensati per indagini statistiche più ampie o focalizzate su altri gruppi sociali, con l’obiettivo non solo di mettere in luce delle situazioni di disagio, ma aiutare anche nell’elaborazione di strategie risolutive e migliorare così lo stato di benessere degli studenti.
Lo studio vuole dimostrare come ad essere stato fonte di stress, ansia e malesseri psicofisici, per gli studenti universitari in particolare, non sia stato soltanto in virus in sé. Le misure di contenimento, lo stravolgimento di una propria ordinarietà, l’interruzione di moltissime relazioni sociali, la confusione delle informazioni sull’andamento della pandemia, la mancanza di occasioni di incontro con gli altri e la costante insicurezza sul futuro, da sempre cara agli studenti nel pieno del proprio percorso accademico, hanno avuto tutte un consistente peso. Il questionario si fa quindi strumento nelle mani di chi adesso dovrebbe sfruttarne le potenzialità, proponendolo ai propri studenti, cercando così di individuare i fattori primari di malessere e di intervenire su questi, così come di capire quali sono le persone più sensibili a questi fattori per aiutarle. 
 
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