Il Ministro Gaetano Manfredi: finita l’epidemia, un’illusione immaginare “di riavvolgere il nastro”

“Credo che oggi sia importante più che mai una riflessione su quella che sarà la società nel post Covid e sul ruolo che avranno l’università e la ricerca in questa nuova società. In questi tre mesi abbiamo vissuto uno degli eventi più significativi dal dopoguerra, che ha inciso profondamente sulla società e su una serie di meccanismi che ritenevamo consolidati, ha aperto nuove prospettive, ha posto interrogativi e ha messo in campo una serie di sfide rispetto a cui tutti noi siamo coinvolti. E soprattutto lo saranno i nostri giovani”. A parlare è Gaetano Manfredi, Ministro dell’Università e della Ricerca, che, prima di ricoprire questo ruolo, è stato Rettore dell’Università Federico II e Presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI). Il Ministro è intervenuto, venerdì 15 maggio, nell’ambito del ciclo di seminari “Covid-19 e crisi”, organizzato dal Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche (DISES) per discutere i vari aspetti della crisi che stiamo attraversando. Il suo seminario “La formazione superiore dopo il Covid-19”, introdotto dai saluti della Direttrice del DISES, la prof.ssa Maria Gabriella Graziano, e dal prof. Saverio Simonelli, è stato seguito da moltissimi docenti e studenti degli Atenei italiani attraverso la piattaforma Zoom e la diretta Youtube.
La lunga riflessione che il Ministro Manfredi ha condiviso su come l’università si è trasformata durante l’emergenza e su come questa dovrà comportarsi in futuro deriva da una serie di considerazioni sulla dinamica globale del processo in atto a seguito del confronto con determinate criticità e relazioni internazionali. 
Laureati ed esami, numeri uguali allo scorso anno 
Una prima considerazione riguarda la risposta delle università alla crisi. “L’università è stata una delle realtà che ha meglio risposto a questa crisi così improvvisa – dice ricordando il lockdown e la chiusura progressiva delle università – Mediamente, in 15 giorni, tutti gli Atenei italiani sono passati ad un’offerta online. Dal monitoraggio realizzato dal Ministero insieme alla Conferenza dei Rettori è emerso che all’incirca il 95% dell’offerta didattica è stata portata in rete con più del 90% degli studenti che hanno seguito i corsi e con dei risultati didattici molto positivi”. Infatti, “gli ultimi dati del monitoraggio a livello nazionale ci dicono che in questo trimestre, rispetto al trimestre dell’anno scorso, il numero di laureati e il numero di esami sostenuti non è praticamente cambiato. Questo vuol dire che, malgrado un’emergenza straordinaria, il percorso didattico è continuato, solo con strumenti diversi”. In questi giorni, anche sui giornali, si assiste ad un dibattito su una pseudocontrapposizione tra università in presenza e università che diventa telematica con “da un lato qualche esaltazione di questo modello che diventa tutto telematico e dall’altro qualche negazione della possibilità che ci sia innovazione. Come tutte le considerazioni ideologiche, anche questa è molto sterile”. A questa premessa segue, da parte del Ministro, una prima considerazione: “L’università è comunità e non lo possiamo negare. Credo fortemente in una inscindibilità tra azione di ricerca e azione di didattica. Non siamo solamente dei trasmettitori di conoscenza, ma siamo dei costruttori di una conoscenza che trasferiamo. Se l’università non è luogo di ricerca, non può essere eccellenza nemmeno dal punto di vista della didattica. E poi, la capacità formativa non è data solo dalla trasmissione della conoscenza, ma anche dall’interazione tra le persone che è interazione tra la comunità dei docenti e quella degli studenti, ma anche tra gli studenti nella loro stessa comunità”. Il processo formativo è condizionato e rafforzato dall’interazione fisica “quindi l’idea che l’università possa trasformarsi da in presenza a tutta in virtuale mi sembra una visione ideologica più che una visione concreta che guarda al futuro”. Altra considerazione: non ci si può illudere che il dopo sarà uguale al prima. “La storia ha sempre dimostrato che qualsiasi evento traumatico sia avvenuto nella nostra società ha sempre determinato un processo di accelerazione del cambiamento. Pensare, una volta finita l’epidemia, di riavvolgere il nastro e tornare a quello che facevamo prima è una visione rassicurante, ma irreale. Le sensibilità, le percezioni, i bisogni della società e dell’università saranno profondamente influenzati da quanto accaduto in questi mesi”. Il Ministro Manfredi, a questo punto, mette in guardia poiché non bisogna farsi trascinare in un’idea di nuovismo senza una stratificazione di competenze e tradizioni, ma nemmeno negare l’innovazione. “Questa emergenza è stata un grande acceleratore di una serie di processi che già erano in campo nella nostra società e nella nostra università e che, per la pandemia, si sono velocizzati. È avvenuto in due o tre mesi quello che sarebbe avvenuto in 5-10 anni. Abbiamo visto che nelle nostre comunità c’erano dei germi di cambiamento che si sono velocizzati e che abbiamo toccato con mano perché costretti a fare delle cose nuove. Ovviamente con lati positivi e lati negativi”. La grande scommessa, ora, è “ricostruire una visione del ruolo dell’università nella società post Covid partendo da un’attenta analisi di quello che è successo e come ciò possa essere messo a sistema per una università e una ricerca più nuova, ma anche più centrale rispetto alla nostra società”.
Innovazione della didattica ma in presenza
Il Ministro sviscera e analizza, poi, una serie di tematiche. Parte dal digitale: “Lo strumento fondamentale con cui ci siamo confrontati in questi mesi è stato il digitale, cioè l’utilizzazione delle tecnologie digitali. Che non è solo la connessione, ma significa avere degli strumenti didattici diversi. C’era già un dibattito nelle nostre comunità su quanto oggi fosse necessaria un’innovazione della didattica. La didattica è interazione tra docente e discente e tiene conto delle caratteristiche sia del docente che del discente. Abbiamo studenti che sono nativi digitali e abituati a strumenti di comunicazione e di apprendimento diversi da quelli a cui eravamo abituati noi quando siamo stati studenti e poi da docenti”. Altro tema è, quindi, l’innovazione della didattica che, però, deve essere un’innovazione in presenza: “Dobbiamo capire quali sono gli strumenti che possiamo usare anche con la didattica in presenza. Noi dobbiamo fare una didattica più interattiva. Utilizzando anche gli strumenti digitali possiamo ottenere un’attenzione, una partecipazione, una capacità di apprendimento superiore da parte degli studenti. L’interattività e l’uso delle tecnologie abilitanti sono grandi strumenti che si potrebbero utilizzare in presenza”. Come scommettere sull’innovazione didattica? “Oggi abbiamo bisogno di fare innovazione didattica, di avere strumenti nuovi, ma questo significa anche un investimento infrastrutturale”. In connessione al precedente tema, c’è la questione dell’integrazione tra didattica in presenza e didattica a distanza e che sarà centrale a settembre. “Le condizioni che ci saranno, probabilmente, ci chiederanno una didattica blended che abbia una parte in presenza e una parte a distanza. A regime, la possibilità di usare la didattica a distanza come integrazione della didattica in presenza, cosa in cui ho sempre creduto, significa far arrivare l’università anche a fasce studentesche che possono essere escluse dalla presenza per vari motivi. Perché sono categorie più fragili o si trovano in aree disagiate e hanno difficoltà a muoversi o possono essere studenti fuori corso o studenti lavoratori. Inoltre, utilizzando lo strumento digitale, possiamo avere una dimensione internazionale della classe anche non in presenza”. 
Altra riflessione riguarda il ruolo educativo che l’università può svolgere, non solo nei confronti dello studente, ma della società, e prende le mosse dal suo dialogo con i docenti: “Molti hanno osservato che, mentre facevano lezione, a seguire non era soltanto lo studente, ma, in alcuni casi, il padre, il fratello. Abbiamo fatto una classe più ampia. Che cosa significa questo? – domanda il Ministro – L’università non deve formare solo la comunità ristretta, cioè chi va all’università, ma può essere anche formazione, in un certo senso, della società. Una delle grandi sfide dell’università del domani è proprio alzare il livello delle competenze diffuse all’interno della 
società”. La nostra società ha poca competenza scientifica, economica, nel campo dei diritti e “l’università rappresenta un grande motore di cambiamento culturale che non può essere rivolto solo a coloro che si iscrivono all’università per studiare, ma deve essere capace di agire più profondamente all’interno della società. Questo rappresenta un ruolo aggiuntivo della funzione dell’università nel post Covid”. 
La sfida, conservare la centralità  che il sapere ha riacquistato
L’emergenza ha portato ad un diverso modo di coniugare i tempi dello studio, della vita, del lavoro: “Questo ci pone un altro problema. Andiamo sempre di più verso una società in cui l’obsolescenza delle competenze diventa sempre più rapida. Mentre prima avevamo un tempo della vita che era il tempo dello studio e un tempo della vita che era il tempo del lavoro, con questa rapida obsolescenza delle competenze e una società che cambia sempre più rapidamente le forme del lavoro, avremo sempre più un’alternanza tra tempi dello studio e tempi del lavoro”. Ed ecco la questione della formazione continua, altra grande sfida: “Chi rientra in questo percorso ha difficoltà a muoversi, a pensare di poter andare in un luogo fisico a fare questa operazione. Una discussione a livello governativo, ma anche internazionale, è stata questa idea di accorciare, in questa fase anche post Covid, il tempo del lavoro e sostituirlo con un pezzo obbligatorio di formazione”. In questa dinamica si apre un nuovo ruolo dell’università “che non sarà coperto solo dall’università, ma a cui questa non si può sottrarre. Un’università che non guarda solo ai suoi studenti tradizionali, ma ha un ruolo anche sul tema della formazione continua, forse non per tutti i segmenti dei lavoratori, ma sicuramente per un segmento medio-alto”. 
Tutti questi temi sono fondamentali nell’ambito di una rivisitazione di quella che è l’idea di una università post-Covid: “L’università è prevalentemente in presenza, ma ha bisogno di innovazione della didattica e gli strumenti del digitale possono aiutare, ma deve essere più inclusiva e rivolta a segmenti della società a cui non si rivolgeva. E questo può avvenire anche grazie al digitale”. Un’ultima considerazione riguarda la ricerca. Anch’essa sarà cambiata da questo evento per vari motivi. “Uno positivo è che dopo anni in cui c’è stata una contrapposizione tra la società e le competenze, improvvisamente, la società, o larga parte di essa, ha capito che la competenza è importante. La grande sfida è fare in modo che la centralità che il sapere ha riacquistato sia conservata. Dunque, un ruolo più rafforzato del ricercatore che deve essere capace non solo di parlare alla sua comunità ristretta, cioè un dialogo tra pari, ma alla società tutta. Questa funzione si stava già sviluppando, ma ora sta accelerando. La ricerca, inoltre, deve farsi sempre più interdisciplinare, più veloce, aperta, per rispondere a temi complessi. 
 
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