Due scrittori somali neo dottori di ricerca a L’Orientale

Jama Musse Jama e Cristina Ali Farah, dottorandi di origine somala, hanno appena concluso un percorso di ricerca a L’Orientale. Evento di risonanza unica per l’Ateneo quello di mercoledì 8 giugno in cui i due studiosi africanisti, già scrittori affermati a livello internazionale, hanno discusso la loro tesi dottorale. “Ho deciso di presentare domanda a L’Orientale in quanto è l’unica Università italiana che offre un corso strutturato di somalo.
Questo è deprimente se si ricorda il rapporto storico tra gli atenei italiani e la società somala. Quindi, sono venuto a Napoli anche per riconoscere, e ringraziare, questo impegno istituzionale che rimane sempre forte e vivo”, afferma
Jama, 49 anni, nato a Hargheysa nel Somaliland, terra dalla quale è fuggito durante la guerra civile nei primi anni Novanta. “Ogni volta che torno a Napoli, al di là della commozione estetica, mi colpisce la complessità e l’operosità delle diverse realtà culturali a lavoro sul territorio, molte delle quali hanno una matrice e un’attenzione che si rivolge al Corno d’Africa”, aggiunge. Da 25 anni lo scrittore risiede a Pisa, città presso la quale ha portato a
termine la laurea in Matematica coltivando un interesse peculiare per lo studio comparato delle pratiche matematiche diffuse presso i vari popoli. “Sono un matematico e lavoro nel campo dell’informatica e delle telecomunicazioni, ma ho deciso di frequentare un dottorato in linguistica computazionale per combinare il mio background scientifico con l’amore per la letteratura e, dunque, creare qualcosa di utile per la società somala”. La
passione per l’etnomatematica applicata a diversi contesti socio-culturali insieme alla vocazione per una scrittura “fatta di parole, emozioni e anima” sono confluite, infatti, nel suo progetto di tesi dottorale, che consiste in un ‘Corpus annotato grammaticalmente sulla letteratura somala’. “Il somalo è scritto soltanto a partire dal 1977, vale a
dire che è molto più giovane di me. È una lingua la cui letteratura è fondamentalmente orale. Lo scritto del somalo deve ancora stabilizzarsi e standardizzarsi a differenza, per esempio, di lingue come l’italiano, che hanno una tradizione storica scritta ben collaudata”. In questo corpus elettronico di prosa e poesia somala, “sono raccolti in tutto circa tre milioni di parole e con oltre 1200 documenti indicizzati tra libri, dizionari, giornali, canti tradizionali, testi di vario genere. Tutto accessibile tramite un sito (www.somalicorpus.com) con un’interfaccia semplice
per l’utente”. Lo scrittore rientrerà a breve nella sua città nativa per organizzare e dirigere dal 23 al 28 luglio la nona edizione del progetto culturale ‘Hargeysa International Book Fair’, considerato il Festival del Libro più importante in Africa orientale, “dove autori e lettori si incontreranno per i libri. Un incontro trasversale in cui tutte le forme artistiche si incroceranno – dal teatro alla musica, dalle arti visive al giornalismo – per parlare di ‘creatività e leadership’. Da due anni abbiamo anche costruito un centro culturale polifunzionale a Hargeysa. È uno spazio per pensare e discutere insieme, soprattutto con i ragazzi, di cultura affrontando temi fondamentali che sono ancora in ombra in alcune zone del mondo: pace, etica, democrazia, cittadinanza, immigrazione, libertà”. Cosa lo affascina di più dell’Italia?. “Il mio figliolo che parla pisano. Io sono italiano per cittadinanza ma ho vissuto in tanti altri posti nel mondo. L’Italia è uno di questi. A differenza di mio figlio, io vivo nella continua traduzione dei pensieri – e dei sogni – dal somalo all’italiano”. L’altra dottoranda è Cristina Ubah Ali Farah, nota scrittrice e poetessa, nata a Verona nel 1973 da padre somalo e madre italiana e cresciuta a Mogadiscio. “Ho deciso di intraprendere il dottorato a Napoli perché è una città che amo moltissimo, soprattutto per la presenza del mare. Sono cresciuta in una città sulle coste dell’Oceano Indiano e la vista e l’odore del mare mi fanno sempre sentire a casa”, afferma l’autrice italo-somala. Di madrelingua italiana, la scrittrice conserva ancora intatta la memoria linguistica del Paese africano che l’ha vista crescere fino allo scoppio del conflitto in Somalia nel 1991, tuttora in corso. “Il somalo è una lingua con una tradizione orale poetica molto antica e importante, dove la parola ha un grande valore. Scrivo e penso in entrambe le mie lingue, dipende dal contesto e dal concetto”. Argomento delle sue ricerche è ‘Il teatro popolare somalo nel periodo 1940-1990’. “L’esperienza è iniziata quattro anni fa. Lavoro all’Archivio Somalia e allora ero lettrice di somalo presso l’Università di Roma Tre. Avevo raccolto molto materiale sul teatro – interviste, fotografie,
registrazioni, videocassette – perché mi interessava narrativamente, ma poi mi sono resa conto che per
comprenderlo a pieno avevo bisogno di studiarlo seriamente e munirmi dei giusti strumenti interpretativi”. Il teatro popolare somalo è interessante, perché si tratta di “un nuovo genere sincretico, legato alle esigenze della vita nelle città, che attinge dalla tradizione somala ed europea insieme, e ha acquistato prestigio quando si è fatto veicolo delle guerre per l’indipendenza”. In occasione dell’esame finale, “ho proiettato delle fotografie d’epoca per raccontare la storia del teatro somalo dai suoi esordi. Ho citato canzoni e sketch comici ed esplorato il ruolo delle donne e il modo in cui venivano rappresentate”. La discussione della tesi “è andata molto bene. Ma mi piacerebbe ancora occuparmi di teatro in modo narrativo e quegli anni di grande entusiasmo nel futuro della Somalia per raccontare anche come è potuto fallire il progetto di giovani così fiduciosi nella modernità”. Oggi la scrittrice vive a Bruxelles e continua a dedicarsi agli esercizi di stile e scrittura letteraria. “La letteratura non è un mero estetismo ma è un atto in qualche modo di responsabilità, se vogliamo anche politico, e io credo nel potere della parola per
cambiare lo stato delle cose. La letteratura ci fa avvicinare alle persone e alle storie in modo empatico, a differenza del cattivo giornalismo che riporta solo numeri e tragedie. Principalmente, quello che mi sta a cuore è il valore delle relazioni e dell’ascolto”.
Sabrina Sabatino
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