Paola Verde, un medico spaziale

Ha origini napoletane e federiciane. Medico, specializzata in Medicina Aerospaziale, con la passione per il volo, la storia e la scrittura; tanta determinazione e un’immensa e spassionata curiosità l’hanno condotta a realizzare, a partire dalla Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1993, tutti i suoi obiettivi. È il Tenente Colonnello Paola Verde, che oggi è Capo Gruppo Fattori Umani del Reparto Medicina Aeronautica e Spaziale della Divisione Aerea Sperimentazioni Aerospaziali. “Ci occupiamo di addestramento e ricerca nel settore della Medicina Aerospaziale ed io, in particolare, sono focalizzata sugli aspetti cognitivi e le performances in ambienti straordinari”, dice. Spiegato più semplicemente, addestra i piloti “che, oltre alla macchina, devono conoscere bene se stessi e i loro limiti fisici e mentali. Ci sono vari problemi in cui possono incorrere in volo, essendo esposti a grandissime accelerazioni, nonché alla fatica operativa e al disorientamento spaziale, tanto per fare degli esempi”. E prende parte a progetti di ricerca, “ad esempio, ne abbiamo vinto uno sponsorizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana e condotto in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, incentrato sulle sostanze che si rintracciano in circolo dopo l’esposizione alle alte quote”.
Missioni di peace keeping. “Lì si torna ad essere medici”
Anche docente ad alta specializzazione presso la Scuola di Ingegneria Aerospaziale de La Sapienza di Roma, “lavorare in Aeronautica Militare significa operare in tanti contesti diversi, come il fuori aria; io sono stata in Kosovo, Albania, Afghanistan, Emirati. In genere, queste sono missioni di peace keeping. Lì si torna ad essere medici, come più tradizionalmente inteso, e ci si occupa anche di civili”. Il Tenente Colonnello Verde, attualmente, lavora all’aeroporto militare di Pratica di Mare, a Sud di Roma. Come si configura una tipica giornata di lavoro? “Una giornata di lavoro tipica non c’è. Ci sono sì i corsi per il personale di volo, i test sugli equipaggiamenti e la ricerca, ma ogni giorno è diverso. Durante il Covid, poi, abbiamo svolto anche attività di biocontenimento e di analisi di tamponi in collaborazione con enti statali”. Dalla Laurea in Medicina e Chirurgia alla Federico II, di strada ne ha fatta: “Quando scelsi Medicina, sapevo di voler fare il medico, pur non avendo idea di quale sarebbe stato il mio campo di elezione. Alla fine ho unito gli studi con un’altra grande e antica passione che avevo, l’Aeronautica”. Conserva un carissimo ricordo del suo relatore, il prof. Elio Marciano “che mi appoggiò subito quando chiesi di sviluppare una tesi sperimentale con l’Aeronautica, proprio nel luogo dove lavoro ora, più di venticinque anni fa, quando nelle Forze Armate di donne non ce n’erano ancora”. La Laurea è stata il trampolino di lancio e da Napoli una borsa di studio l’ha portata alla Royal Air Force britannica per la prima specializzazione in Medicina Aerospaziale: “Fu una full immersion, un cosiddetto ‘residency program’ in un contesto miliare e, allora, io ero ancora una civile. Chiaramente dovetti svolgere tutta la parte pratica insieme a professionisti della medicina aerospaziale militare: le prove in centrifuga, in camera ipobarica e altre attività che ho poi costantemente svolto dopo essermi arruolata”. Con gli inglesi, “seguii anche il corso di sopravvivenza in Cornovaglia… senza nessuno sconto. Ricordo che fui lasciata da sola nella brughiera con un pezzo di cioccolato e una manciata di tè, da fare in un piccolo contenitore, qualora avessi acceso il fuoco. Fu un’esperienza intensa”. Alla specializzazione inglese ne è seguita una italiana, a Roma, e poi un Dottorato in Neuroscienze, ancora alla Federico II, uno dei primi programmi sperimentali dell’Ateneo, svolto in parte in Italia e in parte all’estero: “Concluso il Dottorato, rimasi per un periodo negli Stati Uniti. Era il 2000 e mi ero resa conto che, se non fossi tornata in Italia in quel momento, non lo avrei fatto più. E fui fortunata”.
“Un lavoro di squadra”
Proprio nel 2000, infatti, venne bandito il primo concorso per le Forze Armate aperto alle donne e il sogno dell’Aeronautica Militare si avverò. Tra le prime donne: paradiso o inferno? “Sono cresciuta con tre fratelli maschi – scherza – Ma sono onesta quando dico che sono stata sempre bene. Certo, qualche difficoltà logistica si incontrava, ma eravamo agli inizi”. Anche i rapporti con i colleghi sono stati positivi: “Per i più giovani, il problema non si poneva neppure. Forse per i più anziani, all’inizio, era un po’ strano. Ma fu solo una questione di abitudine. Quello che conta è che tu sia un professionista. Quando ci si trova in contesti particolari, come il fuori area ad esempio, non c’è tempo per pensare alle differenze di genere: serve un bravo medico, un bravo pilota, un bravo ingegnere; quando risolvi un problema, che tu sia maschio o femmina, è solo un dettaglio”. Essere un professionista, ribadisce, è fondamentale: “Il nostro è un lavoro di squadra, che funziona proprio perché ci sono delle differenze tra i membri e ciascuno fa bene determinate cose. Il risultato si raggiunge insieme”. Anche con la divisa indosso, oltretutto, non ha smesso di studiare: nel tempo si sono susseguiti aggiornamenti, specializzazioni, certificati; a maggio 2005, ad esempio, è stata la prima donna italiana a conseguire la qualifica di Space Flight Surgeon presso il Centro Addestramento Cosmonauti Yuri Gagarin della Città delle Stelle di Mosca, nonché il primo italiano a far parte del Medical Board dell’Agenzia Spaziale Europea. “Nel mio caso, studio e lavoro vanno di pari passo. Questo mi fa ripensare alla Federico II, a cui sono molto legata – e alla Scuola di Medicina e Chirurgia è anche tornata quest’anno, quale docente nell’ambito del Master di II livello in Medicina Aerospaziale, coordinato dalla prof.ssa Stefania Montagnani e organizzato in collaborazione con l’Aeronautica Militare – Oltre ad essere stata la mia base di partenza, questo Ateneo mi ha dato varie opportunità e tanta libertà”. Da studentessa, “sono stata tutelata e rispettata, durante il mio internato io e i miei colleghi abbiamo sempre avuto un largo margine di scelta, in un contesto in cui le buone idee venivano valorizzate”. E a proposito di spazio di espressione, la giovanissima matricola Paola Verde ha fatto anche parte della redazione di Ateneapoli: “Doveva essere il 1988 o 1989. È stato così tanto tempo fa – ricorda – Scrivere mi è sempre piaciuto e così anche la storia. Come mio padre. Certe passioni arrivano per eredità”.
“Bisogna saper osare”
Quali sono stati i momenti più belli o difficili della carriera? “Ci sarebbe così tanto da dire, non è facile rispondere. Ho vissuto molte esperienze, diverse. Appena laureata, prima dell’Aeronautica quindi, sono stata in Bosnia per sei mesi, subito dopo gli accordi di Dayton, come responsabile medico, per un’organizzazione non governativa”. Poi pensa anche alle missioni fuori area: “In Afghanistan, ad esempio, aprivamo l’ambulatorio ai civili e io avevo centinaia di signore da visitare, visto che in alcuni casi non si erano mai fatte vedere da nessun medico, perché di solito si trattava di colleghi maschi”.
Stati Uniti, Europa Occidentale e Orientale, Asia, una vita in giro per il mondo: “Napoli sarà sempre la mia città, quella che riconoscerò come casa, e la mia identità è solidamente italiana, anzi se sono arrabbiata passo dall’inglese al napoletano con molta nonchalance. Però viaggiare, sia per lavoro che per studio, mi piace. Come direbbe Sant’Agostino: viaggiare è come leggere, chi non ha mai viaggiato ha letto una pagina sola”. Che tipo di persona è Paola Verde al di là della divisa? “Sono una curiosa. Come ho già detto, amo la storia, che ai ragazzi oggi non viene insegnata per bene. Io sono una cultrice della memoria; senza la memoria c’è il vuoto. E quel vuoto, poi, lo si riempie, spesso in modi sbagliati”. E prosegue: “Lavoro tanto, provo a ricavare del tempo per me, ma non sempre mi riesce. Cerco di vivere pienamente e ho la grande fortuna di fare un lavoro che mi piace”. I sacrifici sono stati innumerevoli: “Oggi si è un po’ meno indipendenti di un tempo, ma bisognerebbe capire che le difficoltà fortificano e che non si deve essere pessimisti. Io ho incontrato tante persone che mi hanno aiutata, ma bisogna anche saper osare, e a volte i ragazzi si lasciano scoraggiare troppo in fretta”. E l’Italia è un bel Paese in cui vivere: “Dal punto di vista degli studi universitari pensiamo di essere peggio degli altri Paesi, ma non è così. E se si ama il proprio Paese bisogna trovare il modo di fare esperienza all’estero, ma poi cercare di tornare. Quando, in America, avevo deciso di ritornare a casa, stavo scegliendo tra avere il triplo dello stipendio e stare dove ero felice”. Un consiglio ad uno studente giovane: “Studiare tanto e imparare bene l’inglese. Il tutto e subito non esiste: bisogna porsi degli obiettivi e perseguirli. I risultati arrivano con il tempo e la perseveranza, ma lo studio in sé non è mai tempo perso”.
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